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Pubblicazioni

Comunicazione digitale
Numero 2/2005

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Comunicazione digitale
Numero 2/2005

1. Editoriale

1.1 Innovazione digitale, ricerca, mercato: tra nominalismo culturale e wishful thinking

di Elisabetta Zuanelli


Il recente affannoso sbracciarsi del sistema politico e istituzionale dei diversi colori e schieramenti sulla necessità impellente di investire in ricerca e innovazione tecnologica suona dolorosamente stonato nel nostro Paese. E i perché sono di varia natura.


Iniziamo dall'economia e dai mercati che in un circuito virtuoso dovrebbero alimentare ed essere alimentati dalla ricerca e dall'innovazione tecnologica.

Lo sviluppo competitivo dell'economia connesso all'innovazione digitale (reti, prodotti, servizi online) e sollecitato dai piani di e-Europe e dagli investimenti globali in innovazione tecnologica, registra modeste risposte nel nostro Paese.

I motivi del ritardo sono noti.

Nel mercato dell'offerta, le realtà multinazionali e nazionali dei settori IT e ICT, non sviluppano innovativamente nel nostro Paese ma vendono ciò che è prodotto altrove.

E' noto che le startup tecnologiche del 2000 non hanno avuto un reale decollo in Italia rispetto al resto d'Europa. I fondi d'investimento hanno registrato modeste nascite intorno all'anno duemila con altrettanto modesti investimenti (tra i più bassi in UE) e sono praticamente scomparsi. Il Paese assistenzialista conta sempre e soltanto sul denaro pubblico. Attualmente permane un atteggiamento industriale non interessato ad investimenti in tecnologia.

Più in generale, anche la domanda di innovazione tecnologica langue, soprattutto nel settore delle piccole e medie imprese, a causa, si afferma, della bassa acculturazione informatica.

Il recente piano di innovazione digitale di Confindustria conferma la consapevolezza del ritardo complessivo e sollecita investimenti in sensibilizzazione e formazione tecnologica per i quali non è chiaro, tuttavia, chi debba pagare.

E veniamo alla ricerca.


Lo sviluppo nel settore è distribuita a macchia di leopardo negli istituti preposti, università in primis, ma risente di una carenza strutturale di investimenti in ricerca e ricercatori.

Le vecchie cattedrali burocratiche della ricerca, CNR ed ENEA tra le altre, i "parchi tecnologici" all'italiana, i centri studi della politica e del sindacato e i più recenti "incubatori" e distretti digitali non hanno incubato granché.

Ma, fatto ancor più grave, taluni burosauri accademici di vecchia scuola tecnologica hanno contribuito di fatto a mummificare la ricerca del settore occupandone i contenuti con sfrontatezza nominalistica.

Così, assistiamo alla nascita istantanea di competenze scientifiche in settori di sviluppo applicativo avanzato interessanti quali l'e-contents, l'e-learning, i motori di ricerca, il web semantico, le interfacce uomo macchina, la TV digitale terrestre.

Abbonda la banalizzazione nostrana di "concetti" complessi quali le architetture di conoscenza, comunicazione e interattività da disegnare per la progettazione avanzata di siti e portali, riassunti sotto le dizioni giornalistiche di "accessibilità" e "usabilità", nelle quali non si distingue la componente conoscitiva tecnica da quella che richiede lavoro di sviluppo, ricerca e modellizzazione applicativa avanzata.

Così, i bandi di ricerca scientifica "di base" nel settore IT e ICT per l'economia del sistema Paese scambiano la ricerca con le applicazioni diverse di knowledge management in ambito aziendale e gli esperti "valutatori" di progetti di sviluppo innovativo finanziato sono genericamente scelti tra il popolo vario dei professori universitari "di settore", fisici, matematici, ingegneri, biologi, ecc.

Ma soprattutto, nel mercato drogato della domanda, specialmente pubblica, si assiste a gare tecnologiche nelle quali l'offerta è qualificata solo dal fatturato delle società in gara, semplici rivenditrici di prodotti talora in parte superati o inefficienti.

A valle di tutto ciò, pullula l'esercito delle società di sviluppo e consulenza che sopravvivono su commesse in subappalto di terzo e quarto livello, esecutrici talora improvvisate di contenuti tecnologici innovativi di ampio respiro.

Come tutto ciò possa portare a logiche di sviluppo competitivo pare oscuro. Mancano interventi e finanziamenti all'innovazione tecnologica di cui si verifichi il risultato e l'efficacia; mancano risorse necessarie per fare ricerca e ricercatori; mancano le visioni competitive del mercato anche dell'offerta che non siano di pura immagine.

In compenso, abbondiamo di wishful thinking, di pensiero speranzoso in cui il desiderio di ricerca e innovazione si traduce, ipso facto, in contenuto nominalistico.

E, per potere divino, il nome è la cosa.

Rallegriamoci.

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